giovedì 28 gennaio 2010

DINO ZOFF

Dino Zoff, figlio di Mario e di Anna, aveva sogni grandi come tutti i ragazzi della sua età. Avrebbe voluto fare il calciatore, da grande.
Ma conosceva il significato di certi valori. La fatica, il lavoro. Glieli aveva trasmessi papà Mario, che alla mattina partiva per i campi e tornava solo dopo il tramonto per tenere in piedi la famiglia. Avrebbe voluto fare il portiere di calcio, il piccolo Dino.
Ma venne su senza smanie, senza viaggiare troppo con la fantasia. Prima il lavoro, la scuola. Poi il calcio, e se davvero un giorno fossero venuti fuori i numeri allora sì, se ne sarebbe parlato. Era il verbo del Mario, e Dino non fece fatica ad accettare perché era in sintonia.
Così, arrivarono i tempi dell'officina. Dino partiva ogni mattina in bicicletta verso Gorizia per andare a sistemare motori. Altra vocazione.
Ci sapeva fare, il ragazzo, e il mestiere gli piaceva. Portava a casa i primi soldi, sessantamila al mese, e i padroni gli permettevano anche di andare a giocare a pallone. Tra i pali, naturalmente. A faticare, anche lì, perché quello era il credo e lo sarebbe sempre stato. I suoi idoli di ragazzo, del resto, erano sportivi che si arrampicavano quotidianamente sui L'oro di Napoli
Alla fine, qualcuno finalmente notò il portiere della Marianese. Racconta Luigi "Cina" Bonizzoni, che lo fece esordire in Serie A nell'Udinese e lo lanciò definitivamente nel Mantova, che «il vero scopritore di Dino si chiamava Comuzzi, girava tutto il Friuli come osservatore e lo portò all'Udinese». Dove iniziò la leggenda, l'avventura. Una brutta domenica di fine estate, in fondo: è il 24 settembre del '61, Dino ha diciannove anni e mezzo, Bonizzoni lo mette in campo contro la Fiorentina e lui incassa cinque reti. Le ricorda ancora oggi: «Andai al cinema qualche giorno dopo. Nell'intervallo c'era la Settimana Incom, fecero vedere i gol di quella partita e io sprofondai sotto le poltroncine».
Poi la retrocessione, la prima stagione da numero uno in Serie B. Nonostante questo, Dino non riuscì a essere profeta in patria. Due anni difficili, gelo intorno e poca propensione al perdono da parte dei tifosi. Per ogni errore, un processo. Meglio cambiare aria. E l'aria nuova, pulita, la trovò a Mantova. Con Bonizzoni allenatore, appunto.
«Lo vidi arrivare con una 600 elaborata che filava velocissima. Il cofano era legato con una cinghia, perché rischiava di alzarsi controvento. Sì, Dino non aveva dimenticato come si curano i motori. Ma quella macchina gliela proibii. Mi sembrava un rischio assurdo».
Mantova fu la tranquillità, la maturità. Tre stagioni in A e una in B, una progressione costante. Accanto a compagni di squadra che si chiamavano Gigi Simoni, Gustavo Giagnoni, e poi Tomeazzi, Cancian, Nicolè, Sormani, Schnellinger. E Santarelli, il portiere arrivato da Bologna con un ginocchio malandato, che si fece da parte e prese il giovane Zoff sotto la sua ala protettrice. muri alti del sacrificio. Fausto Coppi e Abdon Pamich, eroi di modestia, uomini veri. Campioni nel ciclismo e nell'atletica, discipline in cui non puoi barare quando resti solo con te stesso a misurare i limiti della tua resistenza.
Fatica, sacrificio. Parole ricorrenti, nel vocabolario di un ragazzo del Friuli che imparava a farsi uomo e ad esprimersi con poche frasi, con l'arte dei gesti e dei silenzi, degli sguardi e delle pause. Fatica, sacrificio. Nella vita, nel lavoro e anche nello sport. Nel calcio. Il portierino cresceva, sudava, giocando nella Marianese, praticamente sottocasa.
Ma era, appunto, un portierino. Piccolo e gracile, a quindici anni. Si parlava di lui, vennero a vederlo gli osservatori di Inter e Juve. Ma ai provini lo scartarono, nell'ordine, Giuseppe Meazza e Renato Cesarini. Lui non si abbatté. Si rimboccò le maniche, in officina e sui campi. E nel frattempo maturò, anche fisicamente. Avrebbe potuto diventare un buon meccanico, il figlio del Mario. Diventò calciatore. Diventò leggenda.
63Mantova fu la famiglia, anche. L'incontro con Anna, l'amore, il matrimonio. Quattro anni indimenticabili, prima di quel trasferimento rocambolesco: doveva essere Milan, all'ultimo momento (addirittura qualche minuto oltre quello che allora era il tempo massimo) fu Napoli. E Napoli fu un altro passo nella costruzione della leggenda.
Cinque stagioni in cui il calcio italiano imparò a conoscere Dino Zoff. Fino ad aprirgli le porte della Nazionale, dove iniziò la convivenza con il più grande dei suoi rivali, Ricky Albertosi, esattamente l'opposto di Dino dal punto di vista tecnico e caratteriale. All'ombra di Ricky, Zoff visse l'avventura mondiale di Messico '70 dalla panchina.
Ma l'Europeo '68, quello della doppia finale con la Jugoslavia, fu un'emozione tutta sua.
E dietro alle prime gioie azzurre, l'azzurro di Napoli. Napoli e Dino Zoff, un amore apparentemente strano e incomprensibile. Città estroversa, uomo chiuso e riflessivo. Così vicini, così lontani. Fatti l'uno per l'altra, nonostante tutto. E che squadra, poi, davanti alla porta di Zoff. Altafini e Sivori, Juliano e Panzanato, Canè e Montefusco, Barison e Bianchi. Un gruppo che avrebbe potuto andare oltre il secondo della stagione '67-68. Si parlava di scudetto, certo, in quegli anni napoletani. Se non arrivò, fu per certi problemi che si vivevano fuori dal campo: le lotte al vertice della società, la frenesia che agitava i dirigenti e inevitabilmente si ripercuoteva sui giocatori.
Gli anni della Signora
È già una stella, Dino Zoff. E il bello deve ancora arrivare. Anno 1972, il campione ha trent'anni precisi quando si chiude il ciclo di Napoli. Quando arriva il richiamo della Signora del calcio italiano. Lassù, a Torino, la Juventus sta rifondando e rinascendo intorno a un gruppo di giovani che faranno storia. Ci sono Bettega, Causio, Anastasi, Altarini, Capello.
C'è posto anche per Zoff. Che chiude in valigia i ricordi migliori e parte per una nuova avventura. Durerà undici stagioni, e forse all'inizio neppure lui l'avrebbe immaginato. Lo inseguiva da tre stagioni, la Juventus.
Era un altro Zoff, così diverso da quel ragazzino scartato al famoso provino del '58. Era un portiere che dava sicurezza. Certo, i grandi "numeri uno" del passato forse non lo hanno mai amato del tutto: troppo lontano dal concetto di uomo volante, mai percorso da quella vena di follia che per tradizione portava i portieri alla bravata, al gesto spettacolare. In un mondo di adorabili pazzi, Dino Zoff porta la sua saggezza antica. Niente fuochi d'artificio, tanta concretezza. La prima Juve di Zoff, quella del '72-73, vince subito lo scudetto. Lui la ricorderà sempre come la più bella, la più spettacolare. «C'erano Causio, Haller, Bettega. La velocità insieme alla fantasia, la classe mescolata al dinamismo. Dopo arrivò gente come Benetti e Boninsegna, che aumentò forza fisica ed esperienza del gruppo. Ma quella prima Juve mi è rimasta nel cuore».
Arrivò altro, dopo. Cabrini, Tardelli. E soprattutto gli stranieri. Il primo fu Brady, a ruota arrivarono Platini e Boniek. Gli anni di Trapattoni, per capirci, e di un calcio italiano che riapriva le frontiere e si faceva più scaltro, più scafato. Undici stagioni e almeno due cicli bianconeri. Che finalmente riempirono la bacheca di Zoff di trofei. Sei scudetti, una Coppa Uefa, due volte la Coppa Italia.
E una serie di record difficili da battere. Di fedeltà, di longevità.
Il mondo in mano
Negli anni della Juventus, Dino Zoff diventa il Mito. SuperDino, per tutti. E gli anni bianconeri sono anche i migliori anni azzurri, quelli in cui Zoff diventa inamovibile e insostituibile tra i pali della Nazionale e tutti gli eredi non possono che accomodarsi ad aspettare che il re abdichi.
Quattro Mondiali vissuti intensamente: quello della panchina a Messico '70, quello delle delusioni e dei rimorsi per un'Italia incompiuta nel '74, in Germania.
E poi, i più importanti. Argentina '78, la condanna e il declino annunciato. Spagna '82, la rivincita e il trionfo del campione che risorge senza troppi proclami, non con le parole ma con il lavoro duro.
In Argentina, Zoff sale sul banco degli imputati.
Il quarto posto dell'Italia è considerato una mezza debacle, attribuita soprattutto a lui, alla sua incertezza nel respingere i tiri da lontano. Zoff, si dice, sta diventando vecchio, ha i riflessi appannati.
Lui incassa le critiche, non le approva ma tace.
E riparte. Quattro anni dopo, più ancora che quelle della finale contro la Germania, l'immagine del trionfo mondiale degli azzurri è quella della mano di Zoff che al 90° della semifinale tra Italia e Brasile inchioda sulla linea di porta il pallone colpito di testa da Paulo Isidoro, salva il vantaggio azzurro e trascina la squadra in finale.
E il campione che si rialza guarda dritto davanti a sé, e il suo sguardo sembra rivolgersi a quelli che lo avevano condannato prima del tempo in Argentina. Ditelo adesso, c'è scritto in quello sguardo, che sono vecchio e appannato. Un attimo. Perché Dino Zoff non è un uomo in cerca di rivincite. Quello che gli interessa è andare oltre, migliorarsi. Anche a quarant'anni. E a quarant'anni, infatti, diventa campione del mondo.
Il Mito azzurro
Altra immagine. La carezza a Bearzot dopo la vittoria in finale, prima di alzare la coppa al cielo, da capitano.
Un sorriso aperto, finalmente, e quella carezza leggera a un uomo della sua stessa terra, come lui e più di lui spesso ingiustamente criticato.
Un uomo a cui Dino Zoff sente di dovere molto, dal punto di vista tecnico e soprattutto da quello umano.
Dino Zoff chiude la carriera azzurra dopo 112 partite, per lungo tempo record assoluto per un giocatore italiano, sopravvanzato ultimamente solo da Paolo Maldini e Cannavaro.
La sua faccia tranquilla e sicura è finita sulle copertine di Time e di Newsweek, le sue mani che alzano la Coppa su un francobollo commemorativo dopo il trionfo mondiale.
Ha giocato con Burgnich e Facchetti, con Castano e Guarneri, ha visto nascere in azzurro Antognoni, Tardelli, Scirea, Graziani, Cabrini, Paolo Rossi e Bergomi.

Ha vinto un titolo europeo e un Mondiale, e anche questa impresa in Italia non è riuscita a nessun altro.
Dino Zoff è nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio 1942. Ha esordito in Serie A con l'Udinese, il 24 settembre 1961 a Firenze (Fiorentina-Udinese 5-2). Ha giocato in Serie A con Udinese, Mantova, Napoli e Juventus, in B con Udinese e Mantova. In Nazionale ha giocato 112 partite (esordio il 20 aprile 1968 a Napoli, Italia-Bulgaria 2-0), vincendo il titolo mondiale nel 1982.



IL PALMARES
Venti stagioni in Serie A. due in Serie B. La carriera da giocatore, iniziata nel '61, si protrae fino al 15 maggio 1983, quando Dino Zoff gioca la 570a e ultima partita in Serie A prima di ritirarsi (Juventus-Genoa 4-2) con in lasca l'ennesimo titolo di campione d'Italia. Alla fine ne Colleziona sei, di scudetti, tutti con la Juventus nelle stagioni '72-73 (la prima da bianconero), '74-75/76-77, 77-78, W80-8I e '82-K3. Sempre con la Juventus vince due volte la Coppa Italia (79 e '83) e nel '77 conquista il primo trofeo europeo nella stona della società bianconera, la Coppa Uefa. Sfiora due volte la Coppa Campioni raggiungendo la finale nel 73 (battuto dall'Ajax) e nell'83 (sconfitto dall'Amburgo). Con la Nazionale disputa quattro Mondiali: nel '70, in Messico, è il vice di Albertosi e non scende in campo nell'edizione che vale il secondo posto. Nel '74 in Germania torna a casa dopo il girone eliminatorio, nel '78 in Argentina è quarto e finalmente, nell'82 in Spagna, da capitano della squadra, si laurea campione del mondo. Sempre in azzurro, ha conquistato il titolo di campione d'Europa nel 1968.

I RECORD
Dino Zoff ha il primato assoluto di presenze nel campionato di Serie A: al momento del ritiro, nell'83, ne aveva collezionate 570 (4 con l'Udinese, 93 col Mantova. 143 col Napoli e 330 Con la Juventus). In maglia bianconera non ha saltato una partita in undici stagioni: una serie che, con l'aggiunta delle ultime due partite con la maglia del Napoli, porta a una striscia di 332 partite consecutive in Serie A, ancora oggi record assoluto nel massimo campionato.
Un altro record durato a lungo è quello di imbattibilità tra i pali: 903 minuti di fila, una serie interrotta il 18 febbraio 1973 e destinata a resistere ventun anni (battuto, con 929 minuti, da Sebastiano Rossi nel '94). In Nazionale, Zoff ha collezionato 112 presenze, primato assoluto nella storia azzurra. Anche in questo caso ha stabilito un record di imbattibilità, ovvero 1143 minuti senza subire gol: dal 73' di Italia-Jugoslavia 3-1 del 20 settembre 1972 al 46' di Italia-Haiti 3-1 del 15 giugno 1974, primo match dell'avventura mondiale in Germania.
ZoffDINO ZOFF: I RICORDI DI UNA CARRIERAMondiali 1982
«Chi non ha vissuto suc cessi sportivi difficilmente può capire cosa si prova in certi momenti. Solo lo sport può darti sensazioni così violente. Fra le mie vittorie nessuna tiene il confronto con il mondiale, anche perché ho rag giunto quel traguardo in condizioni parti colari: l'età molto avanzata, la fascia di capitano, una squadra partita così così e arri vata al titolo in un crescendo entusiasman te. Per me è stata veramente la consacra­zione di tutta una carriera»

Italia Brasile, la parata sulla linea
«Ebbi paura. Una paura tremenda. Mi rivenne in mente un episodio di dieci anni prima. Giocavamo contro la Romania, fermai una palla buona di almeno venti centime tri, l'arbitro fischiò il gol e si portò al cen tro del campo. Così contro il Brasile, men tre ero a terra, con la palla a un niente dal gol, ho rivisto tutta la scena e ho temuto che si ripetesse»

4 spedizioni mondiali
«Tutte le volte avevamo una squadra forte. La differenza di risultati sta soprattutto nelle condizioni psicologiche con le quali si giunge all'impegno. L'Italia va sempre ai mondiali carica di responsabilità. Se poi strada facendo subentrano ulteriori tensioni, allora la situazione può precipitare»

Mondiali 1974
«Troppe paure, troppe tensioni. E troppi generali, in quella spedizione. E quando dico generali non mi riferisco ai giocatori. I giocatori sono solo soldati»

Mondiali 1978
«Nel calcio, eccettuati uno o due casi su cento, tutti i tiri sono in teoria parabili. Anche quei quattro lo erano. In generale, le critiche che mi piovvero addosso non erano ingiustificate. L'ho sempre detto io stesso che in quel mondiale non ebbi un grande rendimento». Eppure Bearzot non diede ascolto a nessuno e lo confermò per altri quattro anni: «Vuol dire che era uno che ci vedeva bene, nonostante qualcuno non lo stimasse. E infatti poi ha vinto il mondiale...»

Mondiali 1970
«Ci rimasi male, perché due anni prima, nella squadra che vinse il campionato d'Europa, il titolare ero io. Avevo preso il posto proprio di Albertosi. Dopo gli Europei giocai anche le qualificazioni mondiali, ma per la fase finale il Commissario tecnico si affidò al mio collega, anche perché giocava nel Cagliari e in quella nazionale c'era un discreto blocco del Cagliari che aveva appena vinto lo scudetto. Ma queste cose vanno accettate e al di là di tutto credo che Albertosi meritasse piena considerazione»

Napoli
«Il mio era un Napoli potenzialmente straordinario. Peccato vivesse un periodo di crisi societaria. I problemi di ambiente e di organizzazione erano troppi per poter pensare veramente in grande. Nelle mie cinque stagioni è comunque capitato spesso di occupare le posizioni alte della classifica»

Sivori
«Sivori è stato mio compagno per due anni. Nel primo giocò, nel secondo si fece male a un ginocchio e smise. Era dunque un Sivori a fine carriera, ma io lo avevo incontrato da avversario quando era nel fiore. Nel '64, quando ero a Mantova, mi è anche capitato di "sderenarlo" in uno scontro di gioco. Gli fratturai due costole. Omar era comunque un grande. Potrebbe giocare anche oggi, perché i fuoriclasse vanno bene in tutte le epoche»

Juventus
«In undici anni ho vissuto tre Juve diverse. La prima, con Bettega, Capello, Anastasi e grandi giocolieri come Haller e Causio. Poi, con l'arrivò di Benetti e Boninsegna, iniziò la Juve di mezzo, incredibilmente solida. Non era una squadra, era un carrarmato, un tank, un rullo compressore. Poi l'ultima Juve, quella di Platini e Boniek e tutto il gruppo dei nazionali di Spagna. Quella è stata la più grande, peccato non sia stata consacrata dalla Coppa dei Campioni. Alla finale eravamo giunti in modo trionfale»

Inghilterra Italia 0-1, 1973
«Di belle prestazioni me ne ricordo tante e non ho mai fatto classifiche di merito. Ma certo quella volta a Wembley giocai particolarmente bene. Una notte memorabile. Per capire, bisogna ricordare cosa significasse a quei tempi battere gli inglesi. Ci riuscivano in pochi, non era mica come adesso»

Consigli
«Bisogna rimanere coi piedi per terra, specialmente oggi che si arriva ad alti livelli attraverso una vita meno dura. I giovani oggi hanno più personalità, ma meno abitudine a soffrire. Ecco perché alcuni si perdono per strada, mentre una volta chi riusciva ad entrare nell'ambito del calcio maggiore otto volte su dieci proseguiva. Quanto ai miei inizi, furono abbastanza stentati. A Udine ero un prodotto del vivaio e non mi fu facile affermarmi. A diciannove anni esordii in A beccando cinque gol dalla Fiorentina, pensate un po' che bell'auspicio. Feci ancora un anno con l'Udinese, poi andai a Mantova. Perché mi lasciarono partire? Non ero ancora maturo»

Tratto da Storie di Calcio

MARCO VAN BASTEN

Marco Van Basten, classe 1964, è stato probabilmente uno degli attaccanti più forti e soprattutto completi dell'intera storia del calcio. L'olandese, infatti, percorre i cento metri in meno di undici secondi, ha dribbling, scatto, tecnica, acrobazia, precisione e visione di gioco. Nel suo repertorio di gol non manca nessuna soluzione e la sua classe cristallina lo porta spesso a "danzare" sul manto erboso come un ballerino (da qui il famoso soprannome di "Cigno di Utrecht"). Al Milan giunge nella stagione 1987/88 e conquista subito il primo Scudetto dell'era Berlusconi. Nel Milan di Sacchi diventa immediatamente un punto di forza insostituibile. Gioca con i rossoneri 147 partite in campionato, realizzando 90 reti e 54 partite nelle Coppe firmando 34 gol. Vince 4 Scudetti, 3 Coppe dei Campioni (disputa la sua ultima Finale di coppa il 23 maggio 1993 a Monaco di Baviera) e 2 Coppe Intercontinentali. A testimonianza del suo valore vince anche per tre volte il Pallone d'Oro. Purtroppo i problemi alla caviglia, che già lo avevano fermato nella sua prima stagione italiana, ritornano nel dicembre 1992. Dopo un lungo calvario nel quale va incontro a tre diverse operazioni, Marco Van Basten, nell'agosto del 1995, in una San Siro imbandierata e commossa, tra le lacrime dà il suo addio al calcio


giovedì 21 gennaio 2010

GIANNI RIVERA

Gianni Rivera è nato il 18 agosto del 1943 ad Alessandria ed è entrato nella storia come il primo italiano a conquistare il prestigioso Pallone d'Oro.
Nel 1959, ad appena 16 anni, esordisce in serie A con l'Alessandria, la squadra della sua città, ed è subito battezzato il golden boy del calcio italiano. Nella massima serie del calcio italiano, colleziona ben 527 presenze con 128 reti. Rivera ha classe da vendere, è il classico numero 10: agilità, velocità, un tiro preciso, doti che lo accompagnano per tutta la sua carriera agonistica.
Il Milan, nel 1960, lo ingaggia e lo fa subito giocare in prima squadra; con i rossoneri vince tantissimo nelle 16 stagioni che lo vedono grande protagonista. Nel 1962, vince il suo primo scudetto, che dà la possibilità al Milan di disputare la Coppa dei Campioni l'anno successivo.
Il golden boy è dotato di una rara abilità e di un'unica fantasia creativa, qualità che crescono con l'esperienza milanista, ma che fanno crescere, e non di poco, anche il club rossonero.
Nel 1963, il Milan gioca a Wembley la finale di Coppa Campioni contro il Benefica di Eusebio, ma, nonostante il vantaggio dei portoghesi, il capoluogo lombardo può festeggiare la vittoria del prestigioso trofeo per 2 a1. Nel 1967, arriva il successo in Coppa Italia, trofeo che viene conquistato per altre 3 volte, nel 72/73/77. Questo successo porta il Milan a disputare un altro torneo europeo, la Coppa delle Coppe. Nel 1968, è un Rivera pigliatutto, tra club e nazionale. Scudetto prima, Coppa delle Coppe poi. Finale vinta a Rotterdam contro i tedeschi dell'Amburgo per 2 a 0. Con la nazionale italiana, vince a Roma il Campionato Europeo, in finale è la Jugoslavia a cadere. In nazionale, la carriera di Rivera non è sfolgorante come nel club: lo si ricorda principalmente per la famosa staffetta con Mazzola (madre di tutti i dualismi in maglia azzurra) durante i mondiali messicani del 1970. Con la maglia azzurra gioca 70 incontri segnando 14 gol.
I suoi 6 minuti in finale, contro il Brasile, restano i più controversi della storia del calcio azzurro e, a tutt'oggi, molti non si spiegano perché il CT Valcareggi aspettò così tanto a gettare nella mischia il giocatore dal talento più cristallino della nostra nazionale.
Il 1969 è forse l'anno più importante nella carriera di Gianni Rivera. Con il Milan conquista per la seconda volta la Coppa Campioni, battendo a Madrid l'Ajax con un secco 4 a 1. C'è poi il successo mondiale per club, con la Coppa Intercontinentale, ai danni dell'Estudiantes. Ma il successo più importante per il campione piemontese è stato quello di vedersi assegnare il Pallone d'oro; la rivista France Football, che assegna il trofeo, motiva così la vittoria del golden boy: "In un calcio arido, cattivo, con troppi dubbi di doping e premi elevati, Rivera è il solo a dare un senso di poesia a questo sport". Nel 1973, a Salonicco, è vincitore con il Milan di un'altra Coppa delle Coppe; ad uscire sconfitto è il Leeds United, per 1 a 0. Nello stesso anno, vince il titolo di capocannoniere del campionato italiano. Il 1979 è l'anno del suo ultimo trionfo sportivo: vince il campionato con la squadra che ha tanto amato e che tanto lo ha visto protagonista.
Dopo 19 anni, decide di lasciare il calcio giocato. Gianni Rivera è stato uno di quei pochi giocatori che hanno avuto in dono dalla natura quella grazia, quella tecnica e la visione di gioco che su un campo di calcio distinguono un buon giocatore da un vero fuoriclasse.


sabato 2 gennaio 2010

JOHAN CRUYFF

Ritorno dei quarti di finale della Coppa di Spagna 1977–78: al Camp Nou, il Barcellona di Johan Cruijff, che alla fine vincerà il trofeo (3–1 al Las Palmas), riceve il piccolo Deportivo Alavés e, malgrado il sorprendente 1–0 di Vitoria, il pronostico pare a senso unico. A metà della ripresa, il gioco viene interrotto per un fallo senza importanza e Cruijff comincia protestare. L’arbitro, in manifesta sudditanza psicologica, si dilunga in spiegazioni e il siparietto esaspera il giovane Jorge Valdano che sbotta: al capitano “blaugrana” suggerisce di tenersi il pallone e di darne un altro alle due squadre affinché continuino la partita, mentre al direttore di gara consiglia di lasciare all’olandese anche il fischietto perché tanto si è capito chi comanda.
Il Profeta del gol, con uno sguardo a metà fra il compatimento e la noia, gli chiede come si chiama e quanti anni ha. Alle risposte dell’ingenuo attaccante – “Jorge Valdano, ventidue” – fa seguito, pronta e glaciale, la controreplica: “Ragazzino, a ventidue anni a Cruijff si dà del lei”. Alle parole seguono rapidamente i fatti: Johan Cruijff entra in area a tutta velocità, inseguito proprio da Valdano. L’olandese si arresta di colpo, l’argentino riesce a evitare l’impatto, ma Cruijff frana a terra in modo del tutto credibile: rigore! Barcellona 1, Alaves 0, primo e decisivo passo verso il 2–0 che varrà la semifinale. Tutto questo e molto di più era Cruijff: in campo ha (quasi) sempre avuto ragione lui; fuori, in panchina o davanti ai microfoni, pure. Troppo bravo, e consapevole di esserlo, per piacere agli altri. Hendrik Johannes (Johan) Cruijff nasce il 25 aprile 1947 alla periferia di Amsterdam, al n. 92 della Tuinbeuwstraat. Il quartiere fa onore al suo nome, Betondorp (villaggio di cemento) perchè non c’è un filo d’erba.
Il padre Manus e la madre Nel Draaijer vi si erano trasferiti dal rione Jordaan, dopo aver acquistato una modesta dimora con annesso negozietto di frutta e verdura, l’attività di famiglia da un paio di generazioni (erano fruttivendoli anche il padre e un fratello del signor Cruijff). L’infanzia del piccolo Johan non può definirsi felice: una bicicletta è il suo piccolo grande sogno, che rimarrà inappagato. Col fratello Heini, che ha due anni più di lui, e con gli altri bambini del quartiere gioca interminabili partite a pallone. Il suo talento naturale ha dello stupefacente: a cinque anni, grazie anche al collo del piede quasi “piatto” dovuto ad una malformazione congenita, arriva senza sforzo a 150 palleggi consecutivi. Lo stadio dell’Ajax Amsterdam, che dista appena 200 metri da casa, diventa praticamente la sua residenza. Il piccolo Johan trascorre ore ed ore ad assistere agli allenamenti. Johan Cruijff, soprannominato “Jopie” dalla madre è il predestinato: a 3 anni riceve il primo completino della squadra e a 9 ha in dono il primo paio di scarpe da calcio “vere”, per i tempi un lusso difficilmente sostenibile. Appena esce da scuola corre immediatamente allo stadio dell’Ajax Amsterdam, dove si è fatto un grande amico, il magazziniere, che chiama affettuosamente Zio Henk. Lo aiuta a sbrigare qualche lavoretto come lucidare le scarpe da gioco, gonfiare i palloni, piazzare le bandierine dei calci d’angolo.
Tra i giocatori e i dirigenti dell’Ajax Amsterdam, Johan diventa popolarissimo e sempre più spesso gli viene regalato il biglietto per assistere alle partite. Al compimento del decimo anno di età entra a far parte delle giovanili dell’Ajax Amsterdam insieme al fratello Heini. Lui centravanti e il fratello stopper. Johan ha un fisico gracilissimo, dimostra appena sei anni, ma strabilia compiendo prodezze in serie. A 13 anni perde il padre per un attacco cardiaco e i problemi della famiglia diventano drammatici, anche perchè la madre nel giro di poco tempo deve cedere casa e negozio. Johan ottiene per lei, dal vicepresidente dell’Ajax Amsterdam, un posto come donna delle pulizie allo stadio e come commessa al banco del bar. Johan Cruijff continua ad essere un protagonista dei campionati giovanili: in un anno segna 74 reti! Vic Buckingham, l’allenatore inglese della prima squadra, comincia a tenerlo d’occhio. Su Johan l’inglese lavora sodo. Ne frena l’istinto individualista e ne potenzia il fisico con allenamenti specifici. Tecnicamente però non gli insegna nulla: sa già tutto. A 14 anni Johan vince il suo primo campionato nella categoria “ragazzi” giocando con la maglia numero 14. questo fatto lo induce a credere ciecamente che il 14 gli porti fortuna e fa di tutto per poter giocare sempre con questo numero, in un epoca in cui i numeri con la prima cifra diversa dall’1 e la personalizzazione delle casacche sono un’astrusità inimmaginabile. A 16 firma il primo cartellino: passerà alla storia l’aneddoto che lo vede interrompere la madre intenta a pulire il pavimento, perché “tu sei la madre di Cruijff”.



Il 15 novembre 1964, a 17 anni, esordisce in prima squadra in FC Groningen–Ajax Amsterdam 3–1. Rispetto agli avversari, gente del nord, alta e grossa, il talentuoso magrolino (1,76 x 67) è in chiaro deficit fisico (un suo corner non arriva nemmeno in area), ma sul piano tecnico si dimostra una spanna sopra tutti. Alla seconda partita da titolare, nel 5–0 interno contro il PSV Eindhoven, va in gol dopo aver fatto passare la palla sopra la testa di tre avversari, alla quarta si presenta davanti al portiere dopo un dribbling ubriacante, lo chiama fuori dai pali e lo dribbla due volte prima di mettere la palla in rete. Lo stadio comincia a riempirsi di gente che vuole vedere questo fantastico ragazzino. E lui non delude nessuno: è dappertutto, letteralmente. In difesa, a centrocampo, in zona gol. Batte a rete di destro, di sinistro, di testa. Incanta soprattutto il modo personalissimo con cui palleggia e calcia con l’esterno del piede destro. Gli bastano poche apparizioni per diventare titolare inamovibile. Il 29 novembre, l’Ajax Amsterdam viene seppellito di reti, 9–4, sul campo del Feyenoord Rotterdam, un risultato che assesta un tremendo scossone alla già traballante panchina di Buckingham. L’Ajax Amsterdam è pericolosamente vicino alla zona retrocessione ed il 21 gennaio 1965, all’indomani del pareggio nel derby con il DWS Amsterdam, Buckingham viene esonerato. Tre giorni dopo, gli subentra il “generale” Rinus Michels, 38enne ex centravanti del club, che impone una rigida disciplina in campo (allenamenti durissimi) e fuori (in ritiro vieta perfino di giocare a carte). Il 24 marzo 1965, a Leeuwarden, Johan Cruijff debutta nella Nazionale Giovanile per gli Europei di categoria.
A 19 anni vince il campionato ed esordisce, con gol, in Nazionale: Olanda–Ungheria 2–2, gara nella quale accade l’episodio, mai chiarito, del pugno all’arbitro. Cruijff, primo espulso di sempre nella storia della selezione arancione, ha sempre negato di averlo sferrato, ma questo non basta ad evitargli una squalifica (di un anno poi ridotta a 6 mesi) figlia soprattutto del clamore suscitato dalla vicenda. In patria intanto, la fama di Cruijff, secondo olandese a passare professionista (il primo era stato il compagno di reparto Piet Keizer), cresce esponenzialmente con i successi della squadra. A 20 anni campionato e coppa, oltre alla classifica dei marcatori con 33 reti.
Dell’Ajax Amsterdam che si porta rapidamente ai vertici del calcio internazionale è l’uomo più rappresentativo. Nel 1971 vince per la prima volta il “Pallone d’Oro” di France Football quale miglior calciatore europeo dell’anno, trofeo che gli sarà assegnato anche nel 1973 e 1974, quando risulta il più ammirato protagonista del Mondiale che l’Olanda chiude al secondo posto dietro la Germania Ovest. Nel 1972 centra il primo “Grande Slam” della storia del calcio, anche se allora nessuno si sogna di chiamarlo così: in bacheca arriva Campionato e Coppa Nazionale, la Coppa dei Campioni vinta contro l’Internazionale FC con una doppietta di Cruijff, la Coppa Intercontinentale e la neonata Supercoppa Europea.
Nell’estate del 1973, dopo aver vinto tutto con l’Ajax Amsterdam (6 campionati, 4 Coppe d’Olanda, 3 Coppe dei Campioni, 2 Supercoppe Europea, 1 Coppa Intercontinentale e due titoli di capocannoniere), si trasferisce al Barcellona. Il passaggio ai Blaugrana non è così semplice poiché l’Ajax Amsterdam e il Real Madrid si sono segretamente accordati per il trasferimento di Johan Cruijff alla corte delle Merengues. Ma Johan si ribella perchè vuole il Barcellona dal momento che ha fatto una promessa al presidente Montal e quindi vuole i soldi che il massimo dirigente catalano gli ha promesso tre anni prima. A questo punto inizia il braccio di ferro tra Johan Cruijff e l’Ajax Amsterdam che prosegue fin dopo l’inizio del campionato olandese, ma il clima ostile che si respira all’interno della squadra per inevitabili gelosie, anche a livello economico, spingono Johan Cruijff a rifiutarsi di giocare e a minacciare il ritiro, anche perchè sembra che il Barcellona voglia puntare su Gerd Müller. Il giocatore è difeso apertamente da Rinus Michels, allenatore del Barcellona e della nazionale olandese. Alla fine arriva il sospirato trasferimento in Catalogna per la cifra astronomica di tre milioni di fiorini olandesi, circa seicentomila euro di allora.
Nasce così l’avventura forse più affascinante che il calcio moderno può raccontare, una storia d’amore senza paragoni fra un campione, che ha la fama di essere antipatico, ed una città, un popolo, molto diversi da lui. L’amore che il campione ha per questa terra, per questa squadra e questo popolo è tale che al momento di battezzare il suo terzo figlio, Johan Cruijff lo chiamerà Jordi, in onore del santo protettore della Catalogna. Il Barcellona sta vivendo un periodo delicato e non vince la “Liga” da ben quattordici anni, ed ora, con l’arrivo del “papero d’oro”, Rinus Michels non ha più alibi e deve vincere. Tuttavia, a causa di cavilli “tecnici” legati alla definizione del contratto, curata dal suocero, il miliardario commerciante di diamanti Cor Coster, Johan Cruijff può arrivare a Barcellona solo in ottobre quando la squadra blaugrana è penultima in classifica con tre sconfitte in sette gare ed è stata già eliminata in Coppa UEFA.
Il 28 ottobre 1973, di fronte ad un Camp Nou pieno all’inverosimile, finalmente Johan Cruijff debutta nella Liga, segna due reti, ed il Barcelona CF trionfa per 4–0 sul Granada. Il 22 dicembre 1973 segna una delle più belle reti mai viste su un campo di calcio: rovesciata di tacco nella vittoria, per 2–1, contro l’Atletico Madrid. È L’inizio di una cavalcata trionfale per il “Barça” e per i suoi tifosi che stanno per vivere un’avventura che fino a qualche mese prima non avrebbero neppure osato a sognare. Ventisei partite consecutive senza sconfitte, nove vittorie di fila e una stagione che tocca il suo apice il 16 febbraio 1974: il Barcelona CF, trascinato da un Johan Cruijff straordinario, umilia il Real Madrid al Santiago Bernabeu con un incredibile 5–0.
Coi catalani vince subito un campionato e una coppa di Spagna nel 1978, ma l’avventura iberica gli riserva soprattutto dolori: le feroci polemiche con gli arbitri, il killeraggio scientifico di spietati difensori come Villar, la paura di rapimenti, l’influenza filo franchista del Real Madrid. Inoltre, dopo la partenza di Rinus Michels, arriva un sergente di ferro come il tedesco Weisweiler che lo considera semplicemente un giocatore. La sconfitta di Montal alle elezioni e la partenza di molti uomini della vecchia guardia lo costringono ad annunciare il ritiro dalle scene calcistiche a solo 31 anni. È L’anno dei Campionati del Mondo in Argentina, ma ad allenare “l’arancia meccanica” non c’è più Rinus Michels, ma un altro “orso” come l’austriaco Ernst Happel, pertanto Johan Cruijff capisce di non essere più il leader assoluto e rinuncia a parteciparvi.
Una serie di investimenti sbagliati (mal consigliati dal finanziere internazionale Jack van Zanten), tra cui un allevamento di maiali in una fattoria sui Pirenei, lo costringono al ritorno agonistico. A sollecitarlo è chi ne cura gli interessi, cioè il ricchissimo suocero Cor Costner, re dei diamanti e padre dell’ex fotomodella Danny che Johan ha sposato il 2 dicembre 1968. E’ questa la fase più brutta della carriera di Cruijff che, in versione globetrotter ma ormai parodia di se stesso, cerca di spremere gli ultimi spiccioli dal suo straordinario talento. Rifiutato un ingaggio miliardario propostogli dai New York Cosmos (anche) perchè giocavano su erba sintetica, nel 1979 Cruijff firma per i Los Angeles Aztecs e l’anno successivo veste la maglia dei Washington Diplomats.
Il 2 marzo 1981 ritorna al calcio europeo col Levante, seconda divisione spagnola. Dopo 9 mesi, e una decina di partite senza gloria nè soldi, ecco la resurrezione: il 6 dicembre dello stesso anno eccolo nuovamente con la maglia dell’Ajax Amsterdam che, al De Meer, batte 4–1 l’Haarlem (straordinario il suo gol in pallonetto). Assieme al giovane Rijkaard disputa altre due stagioni, vincendo due campionati e una coppa. In tutti lo danno per finito: su tutti il presidente Ton Harmsen, col quale non instaurerà mai lo stesso, conflittuale eppure produttivo, rapporto che aveva, negli anni d’oro, col predecessore Jaap van Praag. In totale con i lancieri disputa 275 partite di campionato con 205 reti prima di passare al Feyenoord Rotterdam della matricola Gullit nell’estate del 1983 vincendo subito il campionato, il nono, e la Coppa d’Olanda, la sesta della sua carriera.
Due anni dopo è di nuovo con l’Ajax Amsterdam, questa volta come consulente tecnico. Poi subentra a Leo Beenhakker e ricostruisce dalle fondamenta il settore giovanile. Nel 1987 guida i biancorossi alla conquista della Coppa delle Coppe contro i tedeschi orientali del Lokomotiv Lipsia grazie ad un gol di Marco Van Basten. L’anno seguente, le divergenze di vedute con la dirigenza, gli fanno capire che è giunto il momento di nuove sfide.
Come il suo maestro Michels, torna in Catalogna per allenare il Barcelona CF, la cui casacca di riserva diventa arancione, come la maglia della nazionale olandese, in onore del grande campione olandese. Nel 1989 bissa il successo in Coppa delle Coppe quindi, quello che non gli era risuscito da calciatore gli riesce da allenatore: è il 1992, e con un gol dell’olandese Ronald “Rambo” Koeman, il Barcelona CF vince la sua prima Coppa dei Campioni con il suo campione più amato in panchina. Johan Cruijff lascia una traccia indelebile come allenatore: oltre alla Coppa dei Campioni conquista ben quattro campionati consecutivi (di cui 2 gentilmente regalati da Real Madrid ed Atletico Madrid) ed una Coppa di Spagna.
In Europa diverte tanto, ma vince meno di quanto potrebbe (memorabile il 4–0 di Atene ’94 inflittogli nella finale di Coppa dei Campioni dal Milan AC di Fabio Capello). Nel 1996, i dirigenti del Barcelona CF, con in testa il presidente Josep Luis Nuñez, suo nemico storico, gli presentano il conto: due anni di insuccessi sono troppi per chi pretende di fare sempre di testa propria, e così lo mettono alla porta. Cruijff potrebbe allenare dove e quando vuole, ma preferisce occuparsi della sua salute (dopo i due by pass del 1991 è diventato testimonial di una celebre campagna antifumo: “nella mia vita ho avuto solo due vizi: uno, il calcio, mi ha dato tutto, l’altro, il fumo, stava per togliermelo”); della formazione calcistica dei ragazzi e della loro istruzione; della fondazione benefica che porta il suo nome; dei tornei di calcio a sei (il campo è di 42 x 28 tutti multipli di 14), patrocinati dal quotidiano De Telegraaf. Scrive libri (il suo “Mi piace il calcio, ma non quello di oggi), fa l’opinionista tv senza peli sulla lingua, gioca a golf e si dedica ai nipoti.
Sommando la carriera di giocatore “totale” a quella di allenatore coraggioso e innovativo, non appare ardua la tesi che vuole Cruijff fra i più grandi, se non il più grande, di ogni epoca. Nessuno tra i fuoriclasse che capeggiano le classifiche all time ha saputo dimostrarsi tale anche da allenatore: non Alfredo Di Stefano (che però qualcosina l’ha vinta), non Maradona e tantomeno Pelè, che neanche ci ha provato. L’unico che può reggere il confronto è Franz Beckenbauer, l’amico nemico di sempre, campione del mondo da capitano e da allenatore. Johan Cruijff, ormai, ci ha fatto il callo e nemmeno protesta più.

Tratto da I grandi calciatori olandesi
 

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